martedì 3 dicembre 2013

DAL SELF HELP AD UNA NUOVA CULTURA DELLA NASCITA


Angela Petrotta, psicologa

Nel preparare questo intervento ho cercato di ricostruire il percorso che ci ha portato ad organizzare il convegno “chi ha paura della cicogna?” e a continuare ad occuparci di quelle tematiche anche negli anni successivi.
            Non è stato facile mettere ordine nel turbine di ricordi ed eventi di una fase storica così ricca e stimolante, a livello sia dell’impegno politico che anche della mia vita personale. Le date nella mia memoria erano incerte e ho dovuto ricostruire il percorso storico seguito cercando anche tra l’abbondante materiale (libri, documenti…) che ho conservato.
Negli anni ’70 all’interno del movimento femminista grande attenzione veniva data ai temi legati al rifiuto del ruolo femminile tradizionale di moglie e madre e alla cosiddetta “liberazione sessuale”.
A questo proposito l’attenzione era concentrata sulla contraccezione e sulla lotta per la legalizzazione dell’aborto, visti come presupposto alla liberazione dal vincolo biologico che storicamente aveva sempre confinato le donne in quei ruoli

            Anche all’interno del gruppo femminista per la salute della della donna (self help), che concentrava il suo impegno nel ridare alle donne la competenza sulla propria salute, l’attenzione era data soprattutto al ciclo mestruale, alla contraccezione, alla sessualità. 
            Nel convegno organizzato dal gruppo di self help nel 1977, per la prima volta tra i vari gruppi di approfondimento delle diverse tematiche legate alla salute, si affacciò timidamente il “gruppo maternità”.
Fino a quel momento l’argomento maternità era quasi un tabù e per quelle di noi che avevano deciso di avere un bambino in quel periodo, si poneva il problema di inventarsi un nuovo modo di vivere la maternità, alternativo agli schemi tradizionali.
 Quindi, quando decisi di avere un bambino, sentii forte l’esigenza di un confronto con le altre donne su questi aspetti, così poco affrontati fino ad allora.
            Naturalmente, come avveniva a quei tempi, affrontammo l’argomento con gli strumenti che conoscevamo, ci riunimmo cioè in gruppi di “autocoscienza” in gravidanza e dopo la nascita dei bambini, per cercare insieme modalità nuove di assumere i ruoli genitoriali e di avviare un cambiamento culturale.
            Ci rendemmo conto che nel movimento femminista avevamo tralasciato il tema della maternità, relegandolo alla sfera del privato, come fosse qualcosa che poteva allontanarci dalle lotte per il cambiamento ed emarginarci dalla partecipazione attiva.
            Ricordo che alle manifestazioni dell’8 marzo in quegli anni (dal ’75 al ’77) portavamo i nostri cartelli “riprendiamoci la maternità” per porre questo tema all’attenzione di tutto il movimento e affermare che ci potevano essere modalità alternative di vivere la maternità.
            Ma oltre ai problemi di tipo culturale e di ruolo, un grosso trauma fu per molte di noi l’impatto con l’assistenza al parto e perinatale in generale.
L’esperienza del parto era stata per molte di noi traumatica e violenta, ci eravamo sentite costrette a subire la prevaricazione del potere medico con i suoi rituali spesso inutili, se non sadici.
            Avevamo rilevato come anche i corsi di preparazione al parto, che molte di noi avevano seguito, non ci avevano preparato né informato adeguatamente su quello che ci aspettava, lasciandoci indifese riguardo alle prassi mediche.  
Ci rendemmo conto che nella gravidanza, parto e puerperio tutte le problematiche del rapporto medico-paziente (e donna paziente in particolare) si presentavano in maniera amplificata.
Il parto veniva considerato come una malattia da ospedalizzare e curare, in cui la partoriente non aveva alcuna competenza e doveva delegare la nascita del suo bambino agli esperti. 
Decidemmo che non volevamo essere più espropriate di un momento così importante, né viverlo più in maniera passiva e subire prassi mediche che tra l’altro comportavano rischi iatrogeni, come la posizione supina, l’anestesia, l’uso dell’ossitocina per indurre il parto, l’episiotomia, l’abuso del cesareo…
Cominciammo ad approfondire queste tematiche, cercando di avere più competenze per poter acquistare maggior potere nel difenderci.
            Nella cooperativa DORIS, nata dal gruppo di self help, formammo un gruppo nascita, subito dopo il convegno del ’77. Eravamo interessate ad estendere l’approccio del self help a questo aspetto complesso della salute delle donne, quindi anche in questo campo promuovere l’autogestione della salute, per affermare il diritto per la donna, la coppia e il bambino di essere soggetti attivi della nascita.
            Il gruppo era eterogeneo e l’interesse era sia personale che professionale. Molte di noi erano ginecologhe, psicologhe, pediatre, ostetriche ancora in fase di specializzazione.
Prendemmo contatti con le esperienze che stavano avvenendo in quegli anni in Italia e all’estero, in Francia (soprattutto l’esperienza di Michel Odent nella clinica di Pithivieres), negli Stati Uniti (casa di maternità) e in provincia di Piacenza (Braibanti).
Nel 1975 era uscito il libro di Leboyer “Per una nascita senza violenza”, che denunciava le prassi ospedaliere come “violente” e proponeva modalità alternative di accogliere il neonato.
Il libro ebbe molto successo e fu un buon punto di partenza verso un cambiamento, ma il problema era che tutta l’attenzione era concentrata sul bambino, mentre non veniva preso in considerazione il punto di vista della partoriente. Come sempre la donna era vista in funzione del figlio, non come soggetto.
 Braibanti, meno conosciuto di Leboyer, aveva scritto nel ’74 il libro “Nascita senza violenza”, nel quale riportava il suo impegno presso l’ospedale di Monticelli D’Ongina, in provincia di Piacenza, per sottrarre l’evento nascita al dominio esclusivo della medicina e restituirlo ai suoi veri protagonisti: mamma, bambino, padre.
            Scoprimmo quindi finalmente esperienze che dimostravano la possibilità di partorire in modo più naturale e rispettoso, uscendo dal condizionamento del parto come malattia da ospedalizzare e curare.  
Tali esperienze dimostravano come fosse possibile partorire al di fuori del contesto ospedaliero, cioè a casa o nelle Case di maternità, dove la donna poteva avere accanto il partner e/o le persone che desiderava, sentendosi meno espropriata e più a suo agio e potendo dopo il parto avere il bambino vicino, senza doversene separare, come avveniva nei nidi ospedalieri.
            Nel 1979 iniziammo a seguire gravidanze e parti. Tenevamo i corsi di preparazione al parto utilizzando lo yoga e la bioenergetica, rifiutando i metodi allora più praticati (RAT, vari tipi di respirazione…) che secondo noi non aiutavano la donna a rendersi consapevole del suo corpo e ad essere protagonista del suo parto senza delegare agli “esperti” la nascita del suo bambino.
Le ginecologhe e le ostetriche del nostro gruppo accompagnavano le donne in ospedale per il parto o seguivano i parti in casa con l’aiuto delle ostetriche condotte ex Omni e garantendo anche l’assistenza domiciliare al puerperio.
            Quindi da questo processo personale e professionale nacque nel 1983 il Convegno “Chi ha paura della cicogna”.
Sentivamo l’esigenza di uscire all’esterno per far conoscere le esperienze che si stavano facendo in Italia e all’estero per una nascita più naturale e meno medicalizzata.
Il nostro intento era anche di tipo politico: cercare di far conoscere queste tematiche per arrivare a modificare le prassi ospedaliere dell’assistenza perinatale.
            Va detto che trovammo una certa sensibilità da parte di alcuni politici donne, all’interno della Provincia di Roma, che finanziarono e sostennero la nostra iniziativa.
            Ci trovammo quindi nel clima austero della sala conciliare della Provincia di Roma, con i suoi banchi di legno scuro ad ascoltare persone che venivano da tutto il mondo con le loro esperienze fuori dagli schemi tradizionali.
            In particolare molta impressione fece l’intervento di Sheila Kitzinger, antropologa americana che si era interessata alla nascita in diverse culture, quando mimò, sdraiandosi sul bancone davanti al presidente della provincia, il parto di un orango.
La Kitzinger concluse il suo intervento mostrando un filmato nel quale donne in diverse parti del mondo partorivano in posizione accovacciata.  
            Importanti per noi furono anche gli interventi che riguardavano le Case di Maternità negli Sati Uniti.
Infatti il nostro desiderio era proprio di realizzare una “Casa di maternità” a Roma e nel convegno presentammo un nostro progetto a questo scopo. La Casa di Maternità per noi rappresentava il luogo in cui mettere in pratica la nuova maturazione politica e culturale sui temi della nascita.
Dal momento che consideravamo la gravidanza e il parto come eventi fisiologici, con importanti aspetti psicologici e sociali, sentivamo l’esigenza di far sì che avvenissero in un luogo alternativo all’ospedale, contesto di cura della patologia.
            Il convegno ebbe una grande partecipazione da tutta Italia e dall’estero, ed ebbe il merito di coagulare intorno a queste tematiche tante realtà che stavano nascendo in quel periodo.
Da questo movimento di opinione e dal sostegno di alcuni politici donne fu approvata nel 1985 la legge della Regione Lazio intitolata “Indirizzi per la riorganizzazione dei presidi sanitari al fine di tutelare la dimensione psico-affettiva del parto”.
Questa legge dava indicazioni per promuovere la dimensione umana della nascita, dava la possibilità ai padri di essere presenti al parto e raccomandava la chiusura dei nidi ospedalieri a favore del cosiddetto “rooming in”, per far sì che il neonato stesse vicino alla mamma, favorendo così anche l’allattamento al seno.
Considerammo questa legge un passo avanti, anche se all’atto pratico era molto difficile far sì che venisse rispettata pienamente nelle strutture ospedaliere, che ponevano diverse resistenze.
In quegli anni, ’84-’85, si sviluppò un grande fermento sia culturale che politico su questi temi e per cercare di modificare le modalità dell’assistenza perinatale.
A Milano fu organizzato il convegno “le culture del parto” (1985) in cui molti operatori portarono le loro esperienze.
Anche a Bruxelles si svolse un convegno analogo in cui entrammo in contatto con interessanti realtà europee, come quella di Londra in cui Janet Balaska aveva coniato il termine “nascita attiva”.
Per sensibilizzare sempre più operatori che lavoravano in questo campo e rispondendo alle loro richieste organizzammo negli anni successivi al convegno diversi corsi di formazione e aggiornamento tenuti da Braibanti, Kitzinger, Balaska…
Anche il nostro modo di seguire la nascita si arricchì. I corsi di preparazione non erano più circoscritti al “parto”, ma cercavamo di affrontare in maniera più completa l’evento nascita: nascita di un bambino, ma anche di due genitori.
Oltre al lavoro sul corpo, tenevamo incontri dedicati alle coppie per aiutarle nell’assunzione della funzione genitoriale.
A quel punto la nostra equipe era molto consistente: ostetriche, ginecologhe, pediatre, psicologhe e nel confronto tra noi cercavamo di fornire un’assistenza e un sostegno completo agli utenti.
Molta importanza davamo al puerperio e al dopo nascita. Insieme alla pediatra tenevamo incontri sulle più comuni difficoltà che i neo genitori incontravano, visite pediatriche collettive, baby-massaggio.
Ci rendemmo conto che il contesto che circonda l’evento parto ha una forte influenza anche per l’immediato post partum e per il puerperio.
Tanto più le donne si sentivano espropriate del proprio parto, tanto più si sentivano completamente abbandonate a se stesse dopo la dimissione dall’ospedale.
Era difficile per loro passare da una situazione di passività in cui delegare tutto agli esperti, ad una situazione in cui dovevano farsi carico in prima persona del bambino.
Tutto il nostro lavoro tendeva ad aiutare la coppia ad entrare in relazione con il nuovo nato, rendendo i neo genitori più consapevoli delle sue innate competenze a vivere.
Il prendersi cura del neonato è facilitato se alla madre e al bambino è dato modo di conoscersi già dalle prime ore di vita senza interferenze, né separazioni.
Negli anni ‘90 nacque “il Coordinamento del Lazio per una nuova cultura del parto e della nascita” nel quale si raccoglievano i vari gruppi che operavano a Roma.
Con il Coordinamento realizzammo un progetto pilota di assistenza domiciliare al puerperio per il Comune di Roma. Questa fu un’esperienza molto importante, che purtroppo restò “progetto-pilota” senza potersi applicare in modo stabile. Sappiamo quanto ancora oggi sarebbe utile poterlo realizzare.  
Come operatori quegli anni furono per noi un periodo molto ricco, in cui scoprimmo di poter svolgere un ruolo nuovo.
Non raccoglievamo più la delega, in quanto esperte e depositarie del nostro sapere professionale, ma ci offrivamo come aiuto in un evento in cui i principali attori erano la donne e il suo bambino.
Proprio dal riconoscimento dei nostri limiti, molto forte era l’esigenza di lavorare in equipe, in un continuo confronto, senza trincerarci dietro formule scientifiche, che il più delle volte hanno una funzione di esorcismo rispetto al timore e al coinvolgimento che ogni nascita non può non suscitare.
A distanza di tanti anni purtroppo, il rammarico è che solo in parte queste acquisizioni sono state realizzate e ancora oggi molto resta da fare per rendere gli operatori più sensibili e le donne più consapevoli.

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