mercoledì 17 aprile 2013

SH materiali 20 aprile 2013

Questo sesso che non è il sesso (articoli da DWF).
Angela Lamboglia e Valeria Mercandino


Abbiamo pensato di portare nelle discussione alcune delle riflessioni nate nella costruzione dei due numeri di Dwf del 2011 dedicati alla sessualità. Sono riflessioni nate in un momento in cui nei media e nella politica si parlava molto di sesso, sulla scia degli scandali sessuali di Berlusconi, ma allo stesso tempo, a fronte di una presenza quasi ossessiva di questo discorso sul sesso, ci sembrava che invece la sessualità non fosse abbastanza presente nei nostri discorsi quotidiani, compresi i discorsi del nostro collettivo.
Diversamente occupate è nato infatti dalla riflessione e dalla costruzione di due numeri di Dwf sul tema del lavoro. Il tema della sessualità e del corpo in quel momento non era presente nei nostri discorsi, solo successivamente siamo arrivate a interrogarci su queste questioni e anche su questa iniziale mancanza di parola.
L'impressione era, e per certi versi rimane, che il discorso sulla sessualità, anche tra donne e anche tra donne che fanno politica insieme, tenda ad arrestarsi in ambiti ben precisi, attorno a precise istanze politiche – aborto, contraccezione, contraccezione di emergenza, ad esempio -, ma che poi corpo e sessualità rimangano dei rimossi.
Ci sembra che da questo derivi, da una parte, una profonda solitudine nel vivere le proprie esperienze, dall'altra, un supporto a dinamiche che non vanno in direzione di una maggiore libertà. Intendiamo dire che la libertà sessuale, spesso data per scontata, non coincide necessariamente con la libertà del desiderio.

La mancanza di parola sul desiderio, sul piacere, sulla dimensione di conflitto nelle relazioni ci è sembrata un elemento di continuità tra noi e le generazioni venute dopo, apparentemente libere da tabù, ma in realtà spesso prive di un sapere sul proprio corpo e ancora intrappolate in nuovi e vecchi condizionamenti. Allo stesso tempo questo silenzio è probabilmente l'eredità delle scelte di una parte del femminismo, che ha abbandonato il discorso sulla sessualità.

Mentre rimettere al centro il discorso sui corpi diventava per noi sempre più un'urgenza politica, abbiamo provato, a partire dalla nostra esperienza e dai racconti di donne di generazioni precedenti, ad interrogarci sui motivi di questa rimozione e a rintracciare alcuni percorsi che potessero spiegarla.
Abbiamo individuato un punto nelle vicende della presa di parola femminista sulla sessualità. E non solo in termini di vuoti o incomprensioni nella trasmissione tra generazioni. Mentre le donne negli anni Settanta hanno pensato più alle pratiche da agire e allo scambio in presenza che alle parole da trasmettere, lasciandoci meno di quanto avremmo voluto, abbiamo ravvisato anche la non istituzionalizzazione dei saperi delle donne nelle università, e la controffensiva maschile al femminismo che declassa i discorsi sul desiderio, sul piacere, e si prepara a relegarli nell'ordine dello scarto, rispetto alla cultura consolidata. Alla fine quelli circolanti sono, ci sembra, solo i discorsi sui temi della salute delle donne, della prevenzione, discorsi innocui se messi in relazione al tanto di più che circolava nel movimento delle donne.
Non sarà un caso che di tutto il sapere e delle tante pratiche che le donne hanno prodotto una donna giovane, che non conosca il femminismo, si trovi in genere ad incontrare principalmente la forma che è stata sussunta dalla stato, l'istituzione del consultorio, reinterpretata, ridiretta altrove, entro un discorso che spesso sembra mettere sotto tutela, che non racconta più – tranne laddove sono rinate le assemblee delle donne – di autogestione e di rifiuto della delega.
Poi c'è da chiedersi come questi processi si siano intrecciati, mentre il movimento perdeva connotazione di massa, con un contesto politico che cambiava, con una tendenza al ripiegamento sul privato e sulle libertà individuali. E se all'incrocio di questi processi noi possiamo leggere, da una parte, il fatto che le esperienze sulla sessualità smettano di essere scambiate e comunicate, e il senso di isolamento che ne deriva – isolamento nel capire da sole il proprio corpo, quello dell'altro o dell'altra, confrontarsi con le aspettative sociali e anche con la medicalizzazione –; dall'altra, se questo ha un nesso con la riduzione della libertà sessuale a un'offerta di mercato, che ci è sembrato il tratto di molti dei racconti raccolti durante la costruzione dei numeri di Dwf, soprattutto quelli delle giovanissime.
Ragazze che si raccontano prese in una competizione ad accumulare rapporti, a togliersi il peso della verginità o comunque dell'inesperienza, senza che mai nei loro discorsi si riesca a rintracciare cosa il loro corpo dica, dove stiano l'attrazione, il piacere, dove il dolore, dove ci sia agio, dove  invece il conformarsi ancora una volta a modelli, condizionamenti, giudizi. I giudizi delle madri femministe in certi casi, ma anche i giudizi su cosa è opportuno per una donna e cosa per un uomo. Ancora.
Da qui l'impressione di un'urgenza a mettere la sessualità al centro dei nostri discorsi, anche se il lavoro, la precarietà, tendono a imporsi come questioni più urgenti, anche se sembra quasi velleitario, con la crisi, il welfare smantellato, gli attacchi alla 194, i problemi nell'ottenere la pillola del giorno dopo o il ritardo sull'aborto farmacologico, pensare che avremmo bisogno di parlare di altro quando parliamo dei nostri corpi.

Ma ci sembra che si debba farlo, e con forza, tanto più perché a fronte di queste parole finite sotto traccia non c'è un vuoto, ma un pieno di parole ingombranti.
E i discorsi che circolano ci sembrano soprattutto di due tipi:
a. quelli legati alle aspettative sociali e alla norma, alcuni che la reiterano, altri che provano a scardinarne gli effetti sulle vite. Abbiamo affrontato la questione delle aspettative sociali e la norma sul sesso perché, se manca una parola liberatoria e di esperienza sulla sessualità, non mancano parole sul dover essere nel sesso. Se abbiamo visto che le adolescenti hanno introiettato un dover essere che sta a cavallo tra l’esposizione permanente e la rimozione del proprio desiderio, qualcosa di simile avviene anche per noi di una generazione più grandi, intrappolate in una sessualità imposta eterosessuale e di disponibilità continua. Abbiamo visto infatti come il condizionamento principale avviene su questo terreno: la norma sociale impone di fare sesso sempre e comunque, ad ogni occasione. Se questo comportamento è considerato il termometro di una relazione – meno di due volte a settimana c’è qualcosa che non va! – è anche metro del proprio essere corpo desiderante: oggi vediamo che se persiste la visione di un corpo femminile a disposizione del piacere dell’altro, essa è accompagnata dall’idea che il corpo femminile stesso debba essere soddisfatto, e dunque desideroso. Oggi, infatti, la domanda sul piacere femminile è pressante e non comporta liberazione.
Le cose non sembrano essere molto differenti rispetto alle analisi e alle denunce che il femminismo faceva negli anni Settanta, se non fosse che oggi noi abbiamo qualcosa in più: delle interlocutrici in più da cui trarre forza – il dialogo non avviene solo tra coetanee, ma anche con donne che hanno iniziato 40 anni fa a sperimentare e condividere parole che oggi ci risuonano, con l’effetto di moltiplicare le occasioni di incontro e di agevolare l’uscita dall’isolamento delle singole – ma anche con cui fare i conti. Rimando in questo senso a una riflessione sulla sessualità – tra clitoridea e vaginale – di Lonzi: se prima questa cesura al limite dell’ideologia era necessaria per l’individuazione del proprio desiderio e del proprio baricentro, oggi noi non vogliamo porre la questione come un aut-aut. Il rapporto con questo testo come con altri rimandi a quel discorso sulla  sessualità è difficile in quanto non è senza scarto: si impone per noi uno sforzo per individuare quel che ancora funziona e quel che è prodotto da una situazione differente.
b. quelli relativi agli aspetti medici cui accennavamo, alla contraccezione e all'aborto soprattutto. A questo proposito abbiamo individuato i luoghi di ricerca di un rapporto tra il sapere medico, la sessualità e un discorso politico ampio in cui si ragionasse della questione della delega dei saperi sul proprio corpo a dei professionisti: la ricerca delle autrici che hanno lavorato contro la medicalizzazione, e lo stesso incontro con il self-help. Nei numeri di dwf che stiamo presentando ci siamo concentrate sulla questione posta da quei consultori in cui c’è una presenza di donne che tentano di far rivivere le istanze che hanno prodotto la nascita dei consultori. E vediamo che ci sono esperienze – seppur sporadiche e che faticano ad imporsi – di consultori in cui in questi anni si è istituita l’assemblea delle donne che vuole riportare l’attenzione non solamente sulle questioni del corpo come terreno medicalizzato e controllato, ma come apertura a questioni politiche e sociali. I consultori infatti sono stati pensati nella totale autogestione di spazi e di competenze da individuare e condividere in ogni struttura, e si sono invece attestati su una conduzione nazionale e regionale che ha privilegiato l’aspetto sanitario a scapito di tutte le altre questioni possibili in uno spazio gestito da donne. Un effetto devastante è stato la perdita delle questioni politiche legate alla maternità, o all’aborto, con lo spostamento dell’attenzione esclusivamente verso il controllo e la gestione sanitaria di tali questioni.
Quel che ci interessava nella costruzione di questi numeri sulla sessualità era una riflessione che riuscisse a tenere insieme il legame tra la sessualità e la politica in un senso che però andasse oltre la denuncia della medicalizzazione e del controllo dei corpi: volevamo andare più a fondo nel capire cosa significasse questo dover essere espresso in una sessualità che non fa tutt’uno con il sesso e soprattutto rintracciare la cifra di un discorso che non fosse solo di denuncia, di retroguardia, ma anche di apertura e generatività.
In questo senso abbiamo rintracciato la questione dell’urgenza dei tempi e delle esigenze personali, contingenti, che premono per stare dentro la politica che ognuna di noi partecipa. Questo è un tema fondamentale per il femminismo, richiama al ‘personale è politico’ e sta al centro di un modo di concepire la politica che è stato rivoluzionario. Ma che ne è oggi di questo traguardo?
Cosa significa avere un corpo? E cosa significa avere un corpo quando si fa politica? Il corpo raccontato in questi numeri è un corpo completamente schiacciato da una vita che chiede ogni minuto per sé: un corpo che è sottoposto quotidianamente a stress, condotto a fatica in tempi sempre più stretti, in una condizione che non viene mai messa in questione. Questo corpo è afasico: in quanto incapace di riconoscere la propria situazione, e le proprie esigenze esso è un corpo senza parole, e, aggiungiamo, un corpo senza parole su di sé è un corpo che non esiste, che tende a contrarsi nello spazio e ad occupare meno spazio possibile. È un corpo che si fa sempre più piccolo per tentare di evitare i colpi, ma allo stesso tempo per avere meno esigenze da soddisfare e tentare di tacitare quelle poche che rimangono. La questione è ovviamente politica, ma non solo per le questioni biopolitiche che incrocia, anche in un senso in più, quello che mostra come il corpo venga rimosso anche dentro l’agire politico. Intendiamo questa cosa in due sensi: uno è che manca una riflessione sull’esperienza del proprio corpo intrecciata alla questione delle politiche securitarie, che produrrebbe una riflessione più radicata, meno astratta: che cosa significa parlare di sicurezza quando si mette a tema che è il proprio corpo a essere sottoposto a queste politiche securitarie? L’altra è che bisogna fare attenzione alla natura di una politica che se si pensa legata al benessere di chi la pratica in verità essa reitera gli stessi meccanismi che sottomettono il corpo: che cosa significa per il proprio corpo stare ai tempi di una politica che occupa tutto il tempo libero dal lavoro, che impegna con fatica portandoci sempre a ridosso della soglia del proprio limite di sopportazione. Che politica è questa? Nei numeri abbiamo si impone l’esigenza che i limiti del corpo dovrebbero diventare i limiti della politica invertendo la priorità e facendo sì che finalmente si parli di una politica che segue i corpi, e non li porta dove vuole lei. Nell’idea che i limiti non fanno rima con le limitazioni, ma con la misura delle proprie possibilità e del proprio desiderio.
Queste sono questioni che, una volta messe a tema, devono essere discusse e riflettute collettivamente, altrimenti rimangono sprazzi di luce che durano un momento e che vengono risucchiate dall’agire quotidiano – sia politico che non. L’incontro con Livia e con il gruppo del self help è una tappa fondamentale per questa messa a tema, per questa riflessione: devo dire che questo gruppo per me ha la doppia virtù di avermi avvicinato a una pratica politica che non conoscevo, per cui mi ha messo in condizione di conoscere un altro modo di approcciare alla sessualità tra donne che va oltre la chiacchiera tra amiche, o la riflessione politica sganciata dal personale, mi ha fatto conoscere donne che hanno fatto un’esperienza radicale del femminismo, e dall’altra parte mi sembra importante ricordare che grazie alla centralità di questa pratica così lontana da noi nel tempo ho conosciuto molte coetanee che hanno approcci differenti alle questioni della sessualità, approcci che altrimenti non avrei conosciuto.
Quel che possiamo portare noi è una riflessione che nasce da quel che esperiscono oggi i nostri corpi. Sono tanti anni che si parla della condizione della precarietà, che si batte sul fatto che essa non è una condizione semplicemente economica e lavorativa, ma anche esistenziale. A nostro parere, però, non lo si fa mai chiedendosi a fondo cosa significhi questa precarietà esistenziale: essa non ha a che fare solo con l’assenza di prospettive per il futuro, ma anche e soprattutto con l’affanno di un presente che fa di noi donne sempre a disposizione di quel che ci viene proposto – nel lavoro, nelle relazioni, nella politica –, per paura di perdere un’occasione che potrebbe essere determinante, che potrebbe toglierci dalla sensazione di perenne mancanza, di incertezza.
Che cosa c’entra il corpo? Anche qui, ancora una volta il corpo scompare dal discorso – se dovessi ascoltare il mio corpo esso reclamerebbe spazio per sé, si ribellerebbe alle condizioni cui è sottoposto – e ci troviamo al punto in cui la politica che pratichiamo e partecipiamo lo rimuove, annulla l’esperienza di essere corpi precari e si concentra sulla materialità della vita che, se nulla ha a che fare con i nostri corpi, si concentra interamente sulle condizioni economiche. Ancora una volta, una politica che si allontana da noi e si fa analisi astratta: un’altra forma di difesa dalla violenza di una condizione che, se fosse veramente messa a tema, forse sarebbe insopportabile. Ma narrare questa condizione, arrivare sin nel suo profondo, probabilmente, è l’unica possibilità che abbiamo.

Angela Lamboglia e Valeria Mercandino

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