giovedì 18 aprile 2013

SH materiali 20 aprile 2013

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Il corpo delle altre, uno sguardo antropologico di genere.
Serena Fiorletta


Dov'è il corpo? Immediatamente mi domando: il corpo di chi? Il mio, quello delle altre, le altre chi?
Nel momento in cui sono entrata a far parte del gruppo "Self – Help, riparliamone", ho scoperto, insieme alle donne che ne fanno parte, l'importanza storica che questo "femminismo nel femminismo" aveva portato avanti attraverso la ri – presa del corpo. La consapevolezza a cui le auto visite avevano portato, nel passaggio generazionale, è andata in parte persa. Quando nei nostri incontri ci viene raccontato cosa fossero e come funzionassero questi gruppi, ma sopratutto come funzionano i nostri corpi, ci è capitato a volte di restare stupite. E' perché quella conoscenza approfondita di me e del mio corpo io non ce l'ho... Quel tipo di indagine fisica, l'esplorazione pratica di sé, tanto da sapere esattamente cosa accade, è oggi in un certo senso nuovamente delegata alla medicina. Capire che la pillola non mi piaceva, non mi dava quella libertà che cercavo, mi allontanava da una percezione di me stessa, è stata una scoperta solitaria. Il tanto odiato ciclo mestruale con i suoi dolori e odori mi mancava, quella scia di sangue è traccia di me. Ma non è mai stata traccia di un noi, come è invece accaduto per le donne del Self – Help. Recuperiamo quindi la storia di questa vicenda che rischia di sparire e vediamo poi se è possibile farne nutrimento per il presente. Non è detto che la conclusione sia rifare i gruppi di self -help ma il corpo delle donne continua ad essere perno anche nei femminismi attuali, occidentali e non occidentali.

In questo nostro lavoro di scavo e memoria, nonché di attualizzazione, il corpo è base quindi del nostro discorso in divenire.

La domanda dell'incipit è il titolo di un saggio di Mariella Pandolfi[1], punto di partenza della mia riflessione. L'autrice, rileggendo i vecchi numeri della rivista Memoria, osserva come il corpo femminile vi appaia ancora oggetto più che soggetto, fornendo l'ipotesi che forse "in quegli anni la necessità politica di contestualizzare il corpo fino a costringerlo, a piegarlo, a coglierne solo gli aspetti coercitivi, la dimensione di non autonomia", non seppe vedere le modalità attraverso cui il corpo esprimeva invece forme di reazione alle oppressioni sino a quel momento analizzate. Eppure Silvia Tozzi, citata nel medesimo articolo, già sottolineava, in un suo scritto sulla vicenda dei Gruppi per la salute degli anni Settanta[2], la necessità di "una ricostruzione storica non appiattita da astrazioni, che dia valore alle scelte dei soggetti, considerando anche gli scarti, le discontinuità". L'esigenza quindi di un superamento che andasse oltre l'analisi del corpo femminile, osservando come la dimensione culturale e storica fossero latitanti in un corpo che allora era costretto tra biologia e medicina.
Se come antropologa torno al mio campo di indagine, ovvero la contemporaneità, oltre il valore storico di quanto le autrici scrivono, mi sembra che qualcosa di analogo stia accadendo oggi ma con i corpi di donne di altre culture. Noi parliamo dei nostri corpi, storicamente e culturalmente determinati, e con consapevolezza ne facciamo oggetto di studio storico o di riflessione attuale. Essendoci nella nostra quotidianità, ormai da tempo, corpi di donne di altra provenienza non possiamo dimenticarcene né possiamo non sapere che anch'essi portano con sé elementi che vanno oltre la mera biologia e che invece sovente scavalchiamo oggettivizzandoli attraverso il nostro sguardo.
Nella nostra quotidianità queste donne diventano facilmente le "donne del Terzo Mondo", "africane", "islamiche", "immigrate" e sempre sottomesse. Ma davvero sono sempre e solo donne oppresse? Hanno bisogno delle nostre spiegazioni e delle nostre lotte?

Mentre scrivo è sulle pagine dei giornali la mobilitazione lanciata dalle Femen, chiamata “Topless Jihad”, in sostegno di Amina Tyler, la giovane attivista tunisina che ha postato su facebook una sua foto a torso nudo ricevendo il biasimo e le minacce di diverse realtà islamiche del suo paese. Sono diverse le donne musulmane, e non solo, che hanno manifestato il loro disaccordo con le modalità delle Femen e sopratutto con un'iniziativa che ritengono non le rappresenti. Oltre ogni sfumatura ciò che rivendicano è la propria autonomia, ciò che ribadiscono è il non voler essere liberate da altri o altre. A farlo sono donne proveniente da diversi paesi, sono donne che indossano il velo come donne a capo scoperto. Comunque vestite in modo differente dal nostro e sicuramente non nude come le Femen.
La facile connessione donna araba – islamica, ovvero velata, ovvero oppressa è qualcosa con cui abbiamo tutte una certa familiarità. Questi discorsi, premessa di facili dicotomie, ricostruscono nell'immediato una geografia immaginaria che stigmatizza l'altro ma anche il noi, attraverso la creazione di due macroregioni, nonché culture, l'Oriente e l'Occidente. Noi e l'Altro.
Il velo delle donne islamiche è un esempio di corporeità interessante[3]. Ne hanno parlato negli anni uomini e donne, femministe e non, antropologhe, giornaliste, studiose. Non ultima l'antropologa Lila Abu-Lughod sul ruolo delle donne nell'infinita guerra d'occupazione in Afganistan, in un articolo dal titolo emblematico, Le donne musulmane hanno veramente bisogno di essere salvate?[4], che ci riporta all'attualità e allo stereotipo di cui sopra. Non solo qui la donna indossa il burqua, ancora più "incomprensibile" del velo, ma a liberarla dall'oppressione sarà l'America di George Bush  che fornisce spiegazioni "culturali" e religiose, senza mai analizzare le interconnessioni globali di cui gli Usa stessi fanno parte. "Come gli antropologi sanno bene, gli individui indossano vestiti appropriati alla comunità sociale in cui vivono e sono condizionati da modelli socialmente condivisi, da credenze religiose e ideali morali, a meno che non trasgrediscano deliberatamente o non siano in condizione di permettersi un vestiario adeguato"[5]. Rimanendo nel solco della storia, il velo è usato da diverse comunità, all'interno di stati e nazioni differenti, ognuno con una suo percorso all'interno della quale il velo ha assunto diversi significati. La storia del velo cambia nel tempo e in Iran, dove è stato segno d'emancipazione e contestazione, è poi diventato un obbligo da non poter trasgredire; oggi in Turchia nei luoghi pubblici è invece vietato; per le donne islamiche in occidente si dota di altri complessi significati a seconda della provenienza di chi lo indossa e a seconda del paese di accoglienza che esercita certamente una sua influenza. Le donne per prime hanno dato, e danno oggi, diversi significati al loro modo di vestirsi e all'uso simbolico del velo. Si deve fare attenzione a ridurre le diverse situazioni e l'atteggiamento di milioni di musulmane a un singolo capo di vestiario. "Forse è tempo di abbandonare l'ossessione occidentale per il velo e concentrarsi su qualche problema serio per il quale le femministe ed altri dovrebbero invece essere coinvolti. In definitiva, l'importante problema politico ed etico che il burqa solleva è come rapportarsi all'"altro" culturale"[6].
Lughod ricorda, come il discorso della liberazione delle donne oppresse, di cui il velo è uno dei simboli, è stato usato dai diversi colonialismi per giustificare le occupazioni imperialiste. Gayatri Chakravorty Spivak nel suo noto lavoro, riassume il paradosso del colonialismo, ovvero "uomini bianchi che salvano donne di colore da uomini di colore"[7]. Non possiamo affrontare qui cosa sia oggi il neocolonialismo o cosa sia stato il colonialismo. Ma quest'ultimo rimane prima di tutto un discorso dotato di  linguaggio proprio, che vede nella relazione tra opposizioni la sua base, e principalmente tra un sé ed un “altro” da sé; in questo caso l’opposizione è tra donna occidentale e donna non occidentale. Categorie interpretative storicamente e culturalmente prodotte da noi, che formano un sistema complesso di rappresentazioni sui colonizzati, i colonizzatori e i loro rapporti, da cui scaturiscono le idee di superiorità dell’occidente nei confronti del resto del mondo dominato o da conquistare. Colonialismo quindi come discorso, che informa di sé determinate azioni e che delinea, di volta in volta, l'identità degli altri/altre.
Uno degli elementi che caraterizzano le donne non occidentali è ciò che Chandra Talpade Moanthy chiama "differenza del Terzo Mondo"[8], ovvero "qualcosa di immobile e astorico che sembra opprimire la maggior parte, se non tutte, le donne di questi paesi"[9].
Oggi abbiamo tutte le possibilità e occasioni per ascoltare il discorso delle altre, evitando l'immagine di una donna media del Terzo Mondo (o altre definizioni analoghe), che "conduce un'esistenza essenzialmente monca a causa della sua appartenenza al genere femminile (vale a dire, sessualmente non libera) e del suo essere del "Terzo Mondo" (cioè ignorante, povera, non istruita, legata alla tradizione, costretta alla vita domestica, dedita alla famiglia, vittimizzata ecc.)"[10].
Di queste facili definizioni dell'altra, ritenute colonialiste e patriarcali, sono ritenute responsabili anche coloro che vengono definite, dalle autrici che si collocano nel filone degli studi post coloniali, le "femministe occidentali". Rivolgendosi con questa definizione a quelle femministe che non sembrano prendere in considerazione l'aspetto culturale, storico e la capacità di autodeterminazione delle donne di altre provenienze.
La ricerca femminista, di cui facciamo parte, non può esimersi dallo sforzo di rivedere il proprio ruolo storico e attuale per inserirsi all'interno di un quadro politico globale, sopratutto se si coinvolge in lotte che riguardano direttamente donne di altre culture. Il relativismo culturale può essere visto come il saper prendere in considerazione il punto di vista dell'altra, il suo corpo e la sua voce, da una prospettiva che non sia solo etnocentrica. Con la consapevolezza che il nostro discorso è culturalmente determinato, esercitarsi all'osservazione degli altri/e, almeno attraverso cio che Ernesto De Martino chiamava etnocentrismo critico.
Un' unione con le altre donne non può essere basata solo sul genere, deve trovare spazio in una pratica e in un'analisi storica in cui tutte abbiano la parola e il gesto. Quando parliamo di donne africane, donne velate o donne immigrate (contenitori al cui interno può esservi compreso di tutto), usando questi concetti come categorie di analisi, neghiamo specificità storica alla posizione che queste donne occupano realmente all'interno delle loro vite. Vengono viste come gruppi omogenei e oppressi, sotratti a qualunque capacità di cambiamento e interpretazione che non venga dato da noi. Di conseguenza così, oltre l'incomprensione culturale, le altre restano sempre al di fuori della storia. Come Simone De Beauvoir ci ricorda, "donne non si nasce ma si diventa", attraverso una  complessa intersezione tra classe, cultura, religione, provenienza etc. "Tali comparazioni riduttive, che prescindono dal contesto culturale, hanno come risultato la colonizzazione delle specificità dell'esistenza quotidiana e delle complessità degli interessi politici che le donne di classi sociali e culture differenti rappresentano e mobilitano"[11]. Inoltre negando le specificità storiche e culturali, le contraddizioni e gli aspetti sovversivi, del corpo e non solo, vengono esclusi. Sottraendo ad altre realtà femminili la capacità di elaborazione di strategie politiche antagoniste,  ci togliamo la possibilità di lotte e conoscenze condivise. Questo permanente evoluzionsimo culturale, per cui il progresso è prerogativa dell'occidente e delle donne occidentali, cancella ogni altra forma di esperienza, di sapere e di conseguenza non vede le forme di resistenza. Noi che ci siamo sentite colonizzate dal patriarcato, non colonizziamo le altre e restiamo vigili per fare in modo che ciò non avvenga.
Ri – troviamo nel nostro presente "luoghi di autonomia sorretti da itinerari tutti interni e femminili; scoprendo tutte le forze dinamiche che possono sprigionarsi quando una parte degli attori sociali, non restando bloccata nella centralità istituzionale può muoversi con maggiori spinte dinamiche proprio perché costretta nei margini, nelle pieghe, alle frontiere di un'esistenza"[12]. Vi sono forze e luoghi di autonomia alle periferie della nostra società attuale da prendere in considerazione quando parliamo di donne, femminismo e corpi. Ascoltiamo le loro definizioni, contrapposizioni e la loro voglia di non essere liberate da altre ma in caso con le altre.
Invece di cercare definizioni chiediamoci quali novità hanno portato le donne migranti con i loro corpi e con le loro diverse percezioni del corpo. Come ricorda nel suo intervento Livia Geloso, "il self-help voleva offrire alle donne un'esperienza che le facesse sentire sullo stesso piano, accomunate dalla somiglianza dei loro corpi e delle sensazioni ad essi legate. Allo stesso tempo, voleva valorizzare le diversità, e opporsi all'omologazione".
Allora mi chiedo cosa accade quando scopro che il flusso liberatorio delle mestruazioni è per qualcun'altra un liquido che scende goccia a goccia, come nel caso delle donne provenienti da luoghi in cui si praticano modificazioni dei genitali, e scopro che qui, se siamo pronte, inizia il dialogo...



[1] Mariella Pandolfi, Dov'è il corpo?, «Memoria. Rivista di storia delle donne», n.33, 1991
[2] Silvia Tozzi, Molecolare, creativa, materiale:la vicenda dei gruppi per la salute, «Memoria», 19-20, 1987
[3] Quello che noi chiamiamo velarsi presenta nelle culture interessate notevoli differenze, nonché nomi differenti per ogni "velatura". Per noi occidentali finiscono tutti sotto il nome di velo e comunque con una connotazione negativa, quantomeno di arretratezza.
[4] ACHAB - Rivista di Antropologia,  numero XIII - giugno 2008, pag.2
[5] Idem
[6] Idem
[7] Spivak, G. C., Can the Subaltern Speak?, in Nelson, C. - Grosserberg, L., Marxism and The Interpretation of Culture, London, Macmillan, pp. 271-313, 1988
[8] Chandra Talpade Moanthy, Femminismo senza frontiere. Teorie, differenze, conflitti, Ombre Corte, 2012
[9] Idem, pag.32
[10] Idem, pag.36
[11] Idem, pag. 47
[12] Mariella Pandolfi, Dov'è il corpo?, cit. pag 47

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